Sembra sia molto difficile accostarsi alla Polacca Eroica di Chopin. Con il rischio fin troppo semplice di farsi trasportare da un’interpretazione in chiave gloriosa, abbagliati dai virtuosismi e dalla spettacolarità dei toni guerrieri e militareschi del brano.
D’altra parte, Charles Hall, pianista amico di Chopin sembra aver portato testimonianza dell’estrema tristezza del pianista nell’aver sentito suonare il brano troppo velocemente. Lui che aveva dato indicazione di suonarlo “velocemente”, ma non “troppo velocemente”.
È una questione di timing, si direbbe in psicoanalisi.
Il libro “Yoga” di Emmanuele Carrère è tutto una questione di timing.
Di tempi interrotti, di suoni troppo veloci o troppo lenti. Del tentativo, spesso malriuscito, di muoversi contemporaneamente il più velocemente possibile e il più lentamente possibile. Al tempo stesso. Di far coincidere le contraddizioni o quantomeno di farle convivere armoniosamente, senza sacrificarne una a scapito dell’altra.
“In ogni posizione statica è presente un’infinità di movimenti, e i movimenti più ampi scaturiscono da un nucleo di staticità. Dobbiamo salire verso il basso, dobbiamo scendere verso l’alto, dobbiamo tirare quando spingiamo, spingere quando tiriamo, dobbiamo tenere il piede in due staffe, salvare capra e cavoli, volere una cosa e il suo contrario, dobbiamo mangiare la torta e tenerla da parte (…)
Fa avanzare i piedi all’indietro!”
Così il libro racconta almeno tre tempi interrotti, seppur attraversati dallo Yoga e, in generale, dalle discipline orientali, come sfondo al tentativo di tenere insieme i pezzi.
La prima parte del romanzo infatti si presenta come un tentativo di scrivere un “libricino arguto e accattivante sullo yoga”, aprendosi con il seminario di meditazione Vipassana, interrotto però dopo soli quattro giorni, in seguito alla notizia dell’attentato terroristico a Charlie Hebdo nel quale resta ucciso l’amico di Carrère, Bernard Maris. Da qui una terza parte è legata al ricovero presso il Sainte-Anne Hospital Center, famoso ospedale psichiatrico di Parigi, dove la diagnosi di disturbo bipolare si confonde tra la terapia al litio e quella elettroconvulsivante. Per terminare in mezzo ad un gruppo di giovani profughi nell’isola di Leros.
Poco importa quanto ci sia di vero ed autobiografico nel testo di Carrère, e quanto di romanzato e fittizio, o almeno poco importa se si adotta come vertice di osservazione quello più squisitamente psicoanalitico, nella cui lente si ritrova abbastanza facilmente l’impervia lotta dell’autore con il suo gemello, sia esso l’altra metà dello yin o dello yang, o l’ombra che compare alla sinistra del personaggio di Frederica, o ancora la mania in rapporto con lo stato depressivo del disturbo bipolare.
Nel 1967 W.R. Bion descriveva il gemello immaginario come l’insieme delle parti scisse e sottratte alla conoscenza che il soggetto desidera riconquistare nell’intento di riappropriarsi della propria individualità, della possibilità di essere uno intero. Lo psicoanalista britannico chiama Evoluzione il “collegarsi mediante un’improvvisa intuizione, di una serie di fenomeni apparentemente slegati tra loro e che, dopo l’intuizione, hanno assunto una coerenza e un significato che prima non possedevano”.
Ed è forse questo vertice che mi porta nel testo a ricercare nessi, legami, barlumi di intuizioni, che permettano di sentire l’autore come partecipe della vita e del testo, laddove la percezione (o le accuse) di poca autenticità possano invece rappresentare il suo bisogno di porre distanze a fronte di vissuti estremamente coinvolgenti (come il rapporto con la donna dei gemelli, o l’interpretazione a 5’ e 30” della Polacca Eroica di Martha Argerich, che raggiunge sì la “pura gioia” ma al tempo il distacco totale dal mondo).
Del resto lo stesso titolo, Yoga, si svela proprio nel suo significato di unire, legare, congiungere, più che nel suo riferimento alla pratica.
Allora, ricordando le parole di Chopin, forse si tratta di stare al mondo velocemente, ma non troppo; e aggiungerei lentamente ma non troppo. Cercando un equilibrio che solo nella relazione con l’altro può realizzarsi. Ed è questa la speranza che Carrère ci dona alla fine del libro, non senza la preoccupazione che anche questa sia troppo veloce:
“Finchè puoi continui a non morire. Continui a non morire, ma non ci metti nessun entusiasmo. Non ci credi più. Sei convinto di non avere più niente da giocarti, e che non succederà più niente. Invece un giorno succede qualcosa. ‘ignoto, desiderato e temuto, assume le fattezze di un’ignota particolare, che cominci a conoscere…”.